A lungo si è ritenuto che la trasformazione digitale, almeno nelle sue forme più pervasive e impattanti, avrebbe risparmiato la rete dei servizi alla persona. La natura immateriale delle relazioni e delle progettualità educative e assistenziali, e in misura minore (ma pur sempre rilevante) di quelle sanitarie e riabilitative, sembrava rappresentare una sorta di argine naturale contro l’ingerenza del fattore tecnologico.
Ancora nel 2017, il digital vortex (l’indice di impatto delle trasformazioni tecnologiche pubblicato dal Global Center for Digital Business Transformation) [leggi] poneva il settore della relazione di cura soltanto al 13° posto tra i 14 ambiti produttivi considerati.
Certo, più d’uno riteneva quella stima errata per difetto, ma era comune anche tra gli addetti ai lavori la convinzione che tra human care e tecnologia operasse una sorta di mutua esclusione, o comunque un principio di distanziamento, essendo la relazione di cura, per sua definizione, un ambito legato ai fattori più caratteristici dell’emotività e dell’affettività umane: l’empatia, l’accudimento e l’educazione.
Fatte salve poche esperienze pilota, sino a pochi anni fa l’unica forma di tecnologia ammessa e praticata era quella puramente strumentale, sostanzialmente pre o proto-digitale: sollevatori meccanici, apparecchi elettromedicali, sistemi di sorveglianza a circuito chiuso, dispositivi di allarme. Il ruolo (residuale) della componente tecnologica era limitato al potenziamento dell’operato umano e all’estensione delle sue capacità muscolari, percettive e di vigilanza. In qualche servizio, grazie all’impiego di semplici device (pc o tablet) questo campo d’applicazione si allargava alle attività di stimolazione sensoriale e cognitiva tramite software appositamente progettati. Anche in questi casi, tuttavia, il ruolo dello strumento informatico era di natura protesica, ripeteva cioè (potenziandolo) l’approccio assistenziale e terapeutico tradizionale e non-tecnologico. Cosa è cambiato nel frattempo?
Come per altri processi socio-culturali, anche per quanto concerne la rivoluzione digitale nei servizi di cura, il salto quantico è stato determinato dalla pandemia.
Non è questa la sede per svolgere una disamina delle soluzioni tecnologiche adottate nei servizi durante il lungo e drammatico biennio 2020-2021 (con code sino a tutto il 2022), ma su un punto è opportuno soffermarsi: la fortissima pressione che il contagio ha prodotto sull’organizzazione dei servizi agli anziani e sulla loro reputazione presso l’opinione pubblica e la classe politica, ha compresso in poche settimane (e persino in pochi giorni) il passaggio a un nuovo paradigma di servizi, che in altre circostanze avrebbe richiesto anni o lustri. Un paradigma nel quale la presenza della tecnologia ha istantaneamente guadagnato uno spazio centrale, e nel quale l’impiego di strumenti e di applicativi digitali si è posto senza mezzi termini come conditio sine qua non per la sopravvivenza stessa dei servizi e per la prosecuzione del loro compito di tutela e promozione della salute (oltre che di cura della persona in quanto tale).
Quali differenze intercorrono tra il vecchio e il nuovo paradigma? Quali nuovi ruoli spettano alla tecnologia nei servizi socio-sanitari e sanitari del dopo-pandemia?
Schematizzando, possiamo collocare su una scala di intensità (e di problematicità) crescente i compiti per i quali oggi viene chiamato stabilmente in causa l’elemento tecnologico.
Il primo livello è costituito dal già citato modello protesico, che oggi viene integrato e superato da approcci più ambiziosi.
Il secondo livello è quello della data analysis, la raccolta e l’elaborazione dei dati relativi al bisogno, con la conseguente individuazione dei trend in atto e dei possibili rischi da gestire attraverso la decisione clinica.
Il terzo livello d’impiego, già altamente controverso, è quello della decisione di cura: ricerche documentate (leggi)) dimostrano che è già stata raggiunta (e superata) la parità uomo-macchina nella diagnosi medica, e oggi nulla vieta (almeno sul piano tecnologico) che sia l’intelligenza artificiale a proporre la decisione clinica, e il medico umano a ratificarla.
L’ultimo livello è rappresentato dalla possibile (auspicata da alcuni, avversata da altri) sostituzione del professionista umano con un suo equivalente digitale.
Tra gli addetti ai lavori, è preoccupazione comune raggiungere il giusto equilibrio tra abilitazione tecnologica e mantenimento del fattore umano come perno della relazione di cura, evitando i rischi del replacement, la sostituzione dell’uomo ad opera della macchina (o dell’intelligenza artificiale).
Guido Matrella, ingegnere elettronico, è ricercatore universitario del Dipartimento di Ingegneria e Architettura (DIA) dell’Università di Parma. Opera nell’équipe – facente capo al prof. Paolo Ciampolini – che da più di 20 anni si occupa di tecnologie digitali applicate all’assistenza di persone fragili e anziane.
“Non è un caso – spiega – che la svolta culturale nelle nostre ricerche sia arrivata proprio grazie a un operatore del sociale come Mario Tommasini, che incontrammo nel 2003 (quando era direttore del Laboratorio sulle Politiche per gli Anziani per la Provincia di Parma). Fu Tommasini a proporci di utilizzare le nuove tecnologie per monitorare da remoto, via internet, le condizioni di vita di persone anziane che vivevano sole in contesti isolati (ad esempio, in frazioni montane dell’appennino parmense). Da quello spunto nacque un’attività di ricerca che, nel corso degli anni, ci ha permesso di partecipare a moltissimi progetti nazionali ed europei, pubblicare articoli su riviste scientifiche internazionali, e sviluppare nuove tecnologie sempre mantenendo un approccio human-centered, centrato sulla persona. Per noi il tema principale è rimasto quello del monitoraggio remoto e non invasivo della qualità della vita delle persone anziane, o fragili, ma oggi lo facciamo mediante tecnologie più avanzate: sensori wireless IoT (Internet of Things) ed elaborazione dei dati mediante algoritmi di machine learning. Facciamo un esempio pratico: si pensi ad uno smart bed (ovvero un normale letto equipaggiato con un apposito sensore wireless) con il quale è possibile monitorare il comportamento notturno di un utente: regolarità del sonno, numerosità e durata delle alzate notturne, misura della frequenza del battito cardiaco e del ritmo respiratorio. Queste informazioni, opportunamente registrate nel cloud, possono essere elaborate e comunicate, per esempio mediante una smartphone app, al caregiver professionale che si occupa dell’assistenza di quell’utente. In questo modo, si può offrire all’utente un servizio di assistenza molto più appropriato, personalizzato e basato su misurazioni oggettive.
“È comprensibile che ci siano preoccupazioni riguardo a novità tecnologiche che evolvono così velocemente: per questo motivo è importante collocare lo sviluppo delle tecnologie per l’assistenza all’interno di un quadro etico condiviso. Crediamo che lo sviluppo di simili applicazioni debba sempre nascere da contesti multidisciplinari, in cui i temi vengano affrontati da diversi punti di vista, il più importante dei quali è certamente quello dell’utente”.
Del medesimo avviso è Gian-Luca Ziliani, Direttore Esecutivo di My Improvement Network Europe, società che si occupa della messa in rete di progettualità innovative nei servizi alle persone affette da demenza:
“La tecnologia è semplicemente un modo per rendere più fruibili, accessibili e adattabili i servizi che già esistono. L’obiettivo non è stravolgerli, e neppure cambiarne la natura, ma erogarli in modo migliore. La tecnologia è uno strumento che ci permette di soddisfare i nostri bisogni in modo semplice e diretto. Nel nostro settore, si tratta di mettere a disposizione strumenti innovativi per tutti coloro che erogano i servizi di cura.
“Ho compreso il potenziale dell’innovazione digitale negli anni novanta, quando si è iniziato a parlare di telemedicina. All’inizio del nuovo millennio, l’UNOPS (L’Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi e i progetti), decise di agevolare l’accesso alla diagnostica medica primaria nei paesi in via di sviluppo. Tra gli altri finanziò un progetto sperimentale che proponemmo per il Perù, Paese all’epoca caratterizzato dalla scarsità di medici formati e dalla debolezza delle infrastrutture e dei collegamenti. Grazie a quel progetto, le persone in situazione di bisogno sanitario poterono avvicinarsi agli specialisti sanitari colmando tutte le distanze e le barriere all’accesso. Da quell’esperienza ho capito che la tecnologia non sostituisce le persone, ma le avvicina.
“MYIN nasce in Inghilterra come solution provider per lo sviluppo di soluzioni finalizzate a migliorare la vita dei pazienti con disturbi cognitivi, perché il loro tempo di vita possa trascorrere nel modo più proficuo e sereno nonostante la malattia. Il nostro prodotto di punta, Rita, è un supporto digitale e di intervento terapeutico alternativo e non-farmacologico, un software che facilita le terapie degli anziani stimolando la memoria, la sfera cognitiva, sensoriale e motoria, e agevolando la relazione. Per espressa volontà dei progettisti, Rita è uno strumento human-centered. Laddove spesso la tecnologia è anonima e standardizzata, Rita personalizza l’intervento adattandosi alla biografia e alla storia dell’anziano assistito, ed è un alleato di chi eroga l’assistenza. Non è un programma diagnostico, ma un sistema tecnologico che viene usato per dare voce, per aprire un canale di comunicazione con persone che altrimenti sarebbero isolate nella loro fragilità. Una volta aperto, quel canale può essere sfruttato dagli operatori in carne ed ossa per agevolare la relazione di cura”.
Esiste tuttavia anche un filone di ricerche e applicazioni che puntano con più decisione a rendere il dispositivo tecnologico un vero e proprio player dell’erogazione della cura, ad esempio realizzando ‘robot sociali’: dispositivi autonomi o semi-autonomi (robot-badanti, robot-tutor, robot educativi), capaci di interagire con gli esseri umani. Una soluzione hard che non convince Guido Magrin, CEO e fondatore di TeiaCare, società leader nello sviluppo di soluzioni tecnologiche e di intelligenza artificiale nell’ambito dell’assistenza, tra le quali spicca Ancelia, dispositivo per la raccolta automatizzata di informazioni sulle condizioni dell’anziano, integrato ad un sistema di Intelligenza Artificiale. “Ancelia – dice Magrin – introduce nella relazione il concetto di consapevolezza. Dove dobbiamo intervenire, esattamente? In quale momento, in quale funzione della cura? Una certa fase della giornata, oppure una specifica prestazione, come l’assunzione di una terapia, o ancora attraverso la raccolta di dati e di informazioni necessarie per una decisione motivata? Ancelia è stata progettata per permettere all’operatore di prendere la giusta decisione di cura, collegandosi ai piani di lavoro, ai pai, alla documentazione sanitaria e alle altre informazioni disponibili.
Con quale approccio? “Puntiamo all’amplificazione dell’azione umana: affiancare e integrare il care provider nel modo più semplice e diretto. L’operatore di cura deve potersi dedicare alla relazione; la tecnologia svolgerà invece attività ‘verticali’ e molto specifiche. Può sembrare strano, ma il modello resta quello del sollevatore. La macchina mi sgrava dei compiti di routine. Raccoglie dati, sorveglia. E facendo questo, mi mette nelle condizioni di esercitare il vero valore professionale rappresentato dalla mia natura umana: l’ascolto, l’empatia, il calore. Cose che la tecnologia non può dare. Con la crescente carenza di personale, i ruoli vanno diversificati: la macchina funziona come supporto per dare risposta alla crescente pressione organizzativa e di carico assistenziale. Per questa ragione non mi interessa l’assistente-robot: non credo che la macchina debba avere un aspetto antropomorfo. Sarebbe fuorviante, perché il nostro obiettivo non è la creazione di cloni. E’ uno scenario da film di fantascienza… Nella realtà bisogna puntare a far svolgere alla macchina funzioni ‘verticali’, e far sì che sia l’uomo ad occuparsi della relazione”.
C’è quindi un limite all’ampliamento delle funzioni che possono essere affidate alle macchine? “Certo. La tecnologia non può avere compassione del mio bisogno, non può ascoltarmi, né farmi una carezza. E’ legittimo che le professioni di cura vengano ripensate, anche radicalmente: ma solo per quanto concerne le mansioni a basso valore relazionale aggiunto. Questo processo ci costringerà a capire quale sia il vero valore una professione di cura. Potremmo allora scoprire (ne sono convinto) che molti caregiver professionali sprecano tempo e risorse in attività collaterali, mansioni che non attengono al senso ultimo del proprio ruolo, e potremmo così decidere di sviluppare solo quegli aspetti del lavoro di cura per i quali davvero l’uomo è insostituibile”.
Lorenzo Lasagna
Responsabile della funzione Ricerca e Sviluppo – Proges